Intervista al cuore di Andrea Leonelli

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Intervista al cuore di Andrea Leonelli

Questa intervista non vuole porre domande all’autore delle due silloge già pubblicate, Consumando i giorni con sguardi diversi e La selezione colpevole, bensì vuole arrivare in fondo al suo animo, per raggiungere quel cuore che ha sicuramente ispirato molte delle poesie che sono state riunite ne La selezione colpevole.

Ecco dunque che l’organo cardiaco diventa protagonista e porta il poeta a esprimere il proprio stato d’animo e le proprie tempeste interiori. Diamogli spazio e lasciamo che possa esporre la propria opinione.

  1. Dunque lei è il cuore di Andrea Leonelli, quando ha avuto il suo mancamento e cosa è avvenuto a grandi linee?

Salve a tutti. Finalmente ho anche io la possibilità di dire la mia. Dopo 40 anni di ininterrotto lavoro, oppresso da un carico emozionale, e magari, forse, anche a causa di qualche cattiva abitudine del mio datore di lavoro ho avuto un crollo. Avevo bisogno di più di quanto ricevessi, sono andato in sofferenza e non ce l’ho fatta a rispondere alle richieste che mi venivano fatte. Non ce la facevo a pompare con la forza necessaria e il boss se ne è accorto. Fortunatamente eravamo vicini al pronto soccorso dove hanno aiutato me (e anche lui ovviamente) a riprendermi. Non è stata una bella esperienza e ha cambiato la vita sia mia che del capo. Non se posso dire che è stata una fortuna, ma i cambiamenti che ne sono seguiti hanno avuto molti risvolti.

  1. Nel momento in cui l’hanno dichiarata fuori pericolo, che cosa ha provato?

Ho provato sollievo. Sapevo che non sarebbe finita lì, ma almeno per stavolta era andata. E’ stato, in poche parole, come se mi si togliessero un peso: il peso di sentirmi un peso. Lo so che il concetto non è facile da capire, ma provate voi a pensare a come vi sareste sentiti se foste diventati la causa principale dell’infermità parziale del vostro capo. Non so se sarei riuscito a tollerarlo.

  1. Ha temuto che rimanessero strascichi e conseguenze? Di non poter riprendere una vita normale?

Si. Li ho temuti moltissimo. È una delle cose che mi hanno preoccupato di più. Il non poter lavorare, il dover stare forzatamente a riposo e il non poter fare le cose che faccio ogni giorno. Continuare a battere per portare in giro il principale e rispondere in modo corretto alle sue richieste, il potergli assicurare e garantire il mio pieno e incondizionato supporto qualora ne avesse avuto più bisogno, mi induceva in uno stato di tensione. Il lavoro del cuore non è difficile, ma bisogna che venga fatto bene. A volte non è necessaria la fatica fisica per farmi aumentare il lavoro, a volte accelero per emozioni molte intense, per degli incontri, a volte per dei semplici pensieri o delle sensazioni. E pensare di non poterlo più fare a regola d’arte è, per un cuore, una frustrazione molto grande.

  1. Pensa che sia stato fatto tutto il necessario per far sì che non accadesse di nuovo? (sia da altre persone che dal legittimo proprietario)

Penso di sì. Chi mi ha trattato coi guanti (è il caso di dirlo) ha fatto un lavoro dannatamente buono. Nonostante le orribili premesse di quel momento oggi mi sento in forma e scattante. Mi piace quando il cardiologo vedendo l’elettrocardiogramma sorride e dice: “Che soddisfazione vedere questo tracciato, invece di quello che visto quella mattina. Sembra che non sia mai successo!” Beh, se lui sorride io rido alla grande. Per quel che riguarda il proprietario… diciamo che se da una parte ha cambiato vita ed è scrupoloso nel prendere gli “additivi” che mi servono, dall’altra non è che sia altrettanto scrupoloso nell’evitare in certe abitudini… ma glielo concedo, qualche piccolo vizio se lo merita .

  1. Il forte senso della morte, che si avverte nelle sue poesie, è dunque dovuto a questo evento particolarmente importante della sua vita?

Quasi sicuramente il capo scrive molto sotto l’influsso di quell’evento. Ha provato fortissime sensazioni e queste hanno molto influito sulla sua visione della vita. Ci sono stati momenti in cui avrebbe potuto anche provare terrore, ma in fondo sentiva (ma proprio in fondo) che non era ancora giunta la sua ora. Anche se come “avviso” diciamo che ha suscitato molto “clamore”. Il senso di morte e di inutilità, di solitudine, di trasparenza nell’esistere, quelli sono venuti dopo, con la depressione. Dal mio punto di vista sono stati comunque pesanti quanto l’infarto. Ero sempre sotto pressione, schiacciato da dolore e abbandono. Si prendevano cura di me, ma sentivo che non se ne curavano, è un concetto forse un po’ astruso, ma è la differenza che passa fra essere una semplice presenza ed essere qualcuno considerato in quanto persona, ovvero è la stessa differenza che passa fra l’essere una sedia e l’essere quello che vi è seduto sopra.

  1. E dopo aver ripreso un’esistenza pressoché normale, per cosa ha ricominciato a palpitare? (la domanda fa riferimento al periodo successivo al cessato pericolo)

Palpitavo per poter esprimere liberamente quel che sentivo, per nuovi orizzonti più ampi, per nuove prospettive. Ho visto quanto ero in quel momento limitato, quanto ero tenuto in considerazione solo per essere accudito. Volevo di più, più soddisfazioni, più cose mie e meno cose da dover fare per gli altri senza essere ricambiato. Volevo potermi realizzare. Volevo battere forte per quelle sensazioni che ti fanno sentire vivo e, in quel momento, non mi era possibile. Allora ho iniziato a battere in modo totalmente nuovo. Ho mollato gli ormeggi e mi sono lasciato andare ai venti, dirigendo la mia vita come e dove volevo io che andasse. Ho fatto conoscenze e poi ho incontrato un altro cuore forte. Un cuore che batteva come me, al mio tempo e per motivi simili. Abbiamo cominciato a battere insieme e poi abbiamo continuato a farlo. Ora posso sentire un battito sempre insieme al mio e non è un’eco, è proprio il suono unisono. La stessa nota che esce da due strumenti uguali e diversi. Se io perdo un passo l’altro mi supporta, se perde un battito l’altro, ci sono io lì a tendergli la mano. È una cosa che non ti fa mai sentire solo ed è un motivo in più per essere un cuore felice.

  1. Tuttavia non vi è speranza nella prosa che la identifica. Questo senso, quasi opprimente, di negatività e rassegnazione, da cosa è dovuto?

Beh, se parli delle poesie che il boss ha scritto in “La selezione colpevole” hai ragione, lì non ha scritto di speranza perché in quel momento ne vedeva ben poca. Pensa che non vedeva quasi neanche un domani. È stato uno dei periodi più neri e infelici nei quali io abbia lavorato per lui. Pareva di spingere della sabbia in salita, non so se mi spiego. Se non vi è chiaro, provateci e poi mi saprete dire. La depressione, il suo esistere invece di vivere, il lasciarsi scorrere i giorni addosso, ha rappresentato un periodo davvero difficile per entrambi. Ogni volta che apriva gli occhi alla mattina lo faceva con rammarico, con il senso del “mi tocca esistere anche oggi e vorrei non esserci”. Guardava avanti e invece di un orizzonte vedeva messi assieme cartelli di “senso unico” e “divieto d’accesso”. Era bloccato in una vita che al momento non desiderava nemmeno avere. E non aveva la forza per reagire, perché in fondo non ne vedeva, in quel momento, né motivo né prospettiva. Un circolo vizioso oscenamente orrendo e veramente rischioso. Si sentiva oppresso da colpe che non aveva. In poche parole uno schifo a 360°.

  1. Sono passati tre anni, è cambiato qualcosa?

Molte cose sono cambiate e ora, finalmente, il mio lavoro è più leggero. È cambiata la nostra vita soprattutto. Ci sono state delle scelte e molte azioni, molti salti nel vuoto, ma sicuramente fatti con fiducia in un futuro nuovo e tutto da costruire. E con tanta voglia di serena felicità.

  1. E in questi tre anni, nei cambiamenti che ci sono stati, ha trovato dei lati positivi in quello che è accaduto? Tornando indietro, se potesse evitare un malore simile, pensa che tenterebbe di scansarlo?

Sì, ho compreso i lati positivi di quanto mi è successo. Ho trovato il coraggio di andare avanti e di continuare a battere. Per motivi nuovi, per persone nuove, stimoli nuovi. Nuova apertura al mondo e all’apprendere cose diverse, a sentire e confrontarmi con altri battiti. Evitarlo? Personalmente, e parlo da cuore, forse sì. Adesso ho una terapia da seguire e controlli periodici da fare per evitare che ricapiti. Ma come evento “catartico” no! È stato necessario al capo per fargli vedere le cose nell’ottica attuale, che dal mio punto di vista è quella giusta. Comunque adesso sto bene e batto felice di farlo e so che il boss, la mattina quando apre gli occhi, sa che sarà una buona giornata, nonostante tutto. E poi adesso anche io so che anche per me sarà una buona giornata: ho la mia controparte che batte assieme a me. Diciamo che è stato un male necessario. E come si sa, non tutti i mali vengono per nuocere, anzi questo è venuto per giovare.

  1. Infine, come si sente adesso? Pensa che potrebbe capitarle ancora?

 Adesso sto benone, l’ho già scritto più volte ma non mi stanco mai di ripeterlo. Per quanto riguarda il capitarmi ancora è un timore che nutro, ma non mi faccio condizionare da questo. Aggiungerei solo un ulteriore stress al mio lavoro. Non vedo che beneficio ne avrei. Se capiterà affronterò col boss la situazione, tanto lui sa come riconoscere i miei malesseri, so che mi ascolta la sera a letto prima di dormire, so che ci tiene a me e che progetta sempre di farmi lavorare ancora a lungo, per cui mi vuol bene. E so che quando mi costringe a fare degli sforzi, lo fa perché si sta divertendo: sono quei momenti in cui sento il mio omologo vicino. Ci bussiamo direttamente attraverso quel poco spazio che ci separa. Ed è allora che veramente il lavoro, per quanto intenso sia, mi è più piacevole farlo.

Ringrazio il cuore di Andrea Leonelli per aver risposto a queste domande insolite e per aver tentato di porre tutta la sincerità necessaria, per far sì che questa intervista esponesse un pezzetto della sua anima. E ringrazio anche il suo legittimo proprietario, per aver avuto la pazienza di sottoporsi a dei quesiti così personali.

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